Umanità disconessa, la morte di un senza tetto e la movida che scorre tutto intorno
In un sabato sera qualsiasi, tra le luci soffuse dei locali e le note allegre di una band che suonava poco distante, è morto un uomo. Era un senza fissa dimora, invisibile ai più. Ha esalato l’ultimo respiro in un locale abbandonato, di via Trieste, Ortigia. Per lui era rifugio, casa, riparo.
Un corpo coperto da un lenzuolo, una bara di metallo chiusa in silenzio, il via vai dei Carabinieri, della Municipale, del medico legale. Intorno, la vita che andava avanti indifferente. In fondo, forse nessuno quell’uomo lo ha mai davvero visto.
Scene di un’umanità sospesa, sistematicamente allenata ad ignorare. Ignorare il disagio, la povertà estrema, l’abbandono. Tutto finisce ai margini della coscienza collettiva, esattamente come quegli uomini che trovano rifugio al Mazzanti o nella ex Casa del Pellegrino.
La morte di un senza tetto non fa più notizia, non smuove coscienze e neanche interrompe per un minuto il ritmo della città che ha disimparato a vedere, a sentire, a riconoscere l’altro come proprio simile.
L’empatia è parcheggiata sui social, dove indignarsi è semplice. Ma sulle strade di Siracusa, sui marciapiedi di Ortigia, nei vicoli in cui si muore in silenzio, l’umanità vera si è disconnessa.
Quel corpo chiuso in una bara, mentre tutto scorreva come se nulla fosse, ci restituisce l’immagine spietata di una società che ha perso il senso della compassione, della prossimità. Un patto sociale che si sgretola dalla base.














