Violenza giovanile, i più fragili sono ormai “bersaglio”. La crisi educativa esplode a Siracusa

 Violenza giovanile, i più fragili sono ormai “bersaglio”. La crisi educativa esplode a Siracusa

Due episodi scuotono profondamente la comunità siracusana: sabato sera, l’aggressione a una ragazzina da parte di un gruppo di coetanei ad Avola; oggi, la scoperta delle crudeli violenze inflitte da cinque diciassettenni di Siracusa a un anziano solo. Due fatti distinti eppure legati da un inquietante filo rosso: una violenza gratuita, insensata, esercitata da giovani contro i più fragili. È il segnale evidente di una crisi educativa che non possiamo ignorare fingendo che non esista o che riguardi un altro territorio, un’altra società.
Liquidare questi terribili episodi come dei casi isolati sarebbe un errore di proporzioni indicibili. Sono i segnali evidenti di un malessere profondo, silenzioso ma presente e che si annida nelle pieghe della nostra società. Le agenzie educative tradizionali — scuola, famiglia, chiesa — sembrano oggi smarrite, incapaci di parlare la stessa lingua e di tracciare un percorso comune. L’autorità genitoriale è spesso fragile, compromessa da modelli di vita frenetici, dalla necessità di lavorare entrambi e da una dipendenza collettiva dalla tecnologia. La scuola, sovraccarica e spesso messa in discussione dagli stessi genitori, fa il possibile ma non basta.​
Intanto, i social media e la televisione offrono modelli alternativi, spesso tossici: l’arroganza elevata a forma di successo, la prevaricazione come stile comunicativo, la mancanza di empatia come cifra del potere. I ragazzi si formano in questa “giungla” digitale, privi di filtri e senza gli strumenti per capire cosa è giusto e cosa è sbagliato, dove sta esattamente la linea che demarca e divide il bene dal male. In questo, gli adulti abdicano al loro ruolo educativo.
La società cosiddetta moderna non aiuta. Dove sono finiti gli strumenti sociali di supporto alla genitorialità? Quando è che abbiamo smesso di “fare comunità”?​ In molte famiglie, i figli si crescono da soli. Passano le giornate davanti agli schermi, costruendo relazioni virtuali e spesso malsane, mentre i genitori — stressati, disorientati, stanchi — faticano a imporre regole o anche solo ad offrire un’alternativa. La domanda, provocatoria ma necessaria, è: serve una “patente di genitorialità”? Forse, se intesa come momento di formazione obbligatoria, per fornire nuovi strumenti per affrontare crisi valoriali specchio dei tempi.​
La realtà è che educare è un compito difficile e continuo. E chi lo affronta – i genitori in primis – ha bisogno di strumenti, di tempo, di comunità. E invece le famiglie vengono lasciate sole, senza punti di riferimento. Prendiamo sport, un tempo valvola di sfogo e scuola di disciplina; oggi è sempre meno praticato — non solo per motivi economici – ma per l’incapacità di promuovere stimoli positivi nei giovani, mentre mancano strutture ed accompagnamento verso una pratica sportiva accessibile per tutti.​
L’altro lato del problema riguarda poi chi subisce la violenza: gli anziani, spesso soli, invisibili, dimenticati. Viviamo in palazzi in cui non conosciamo il vicino di casa, in città dove non ci si ferma più a guardare negli occhi il compagno di banco o il collega in difficoltà. L’individualismo ha vinto sulla solidarietà, l’efficienza ha divorato l’empatia. E così, anche l’indifferenza diventa complice.​
Ripartire si può. Serve però uno scatto collettivo, un’assunzione di responsabilità a tutti i livelli. Servono genitori messi nelle condizioni di essere più presenti, anche a costo di cambiare priorità governative. Servono scuole più forti, sostenute, riconosciute come cuore della comunità anche a costo di sacrificare la retorica ipocrita del perbenismo e del benaltrismo. Serve una politica che investa su presìdi educativi, sport, associazionismo, cultura. Serve soprattutto una società che torni a vedere l’altro, ad intervenire per dire “stai sbagliando”, che sappia fare la cosa giusta quando succede qualcosa di grave.​
E infine, serve ricostruire un senso di appartenenza: tornare a sentirsi parte di qualcosa, per prendersi cura l’uno dell’altro. Perché nessun ragazzo nasce bullo, nessun anziano merita l’abbandono e nessuna ferita sociale guarisce da sola.

 

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